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Il Romanzo di Monteserico, SOTTO
L'ARCO DI EROS di Ettore Lorito
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PREFAZIONE
Mio padre narra alcuni episodi
riguardanti una delle potenti famiglie del reame di Napoli così come furono
sommariamente annotati in una pergamena proveniente dall'archivio del nostro
Convento di S. Francesco, che fu il centro più importante del movimento liberale
genzanese durante la dominazione borbonica.
L'avvenimento principale, sostanzialmente modificato
e modernizzato, a Firenze, fu oggetto di una brillante tragedia per cinema ad
opera del compianto studioso, Canio Cherubino.
Il lavoro non venne accettato perché ritenuto
immorale in quel lontano tempo (1913).
Credo utile avvertire che l'ignoto autore delle
disadorne note, credette opportuno alterare nomi e date nonché servirsi di
comodi anacronismi per non far identificare il casato al quale si riferivano
gli episodi registrati, e, forse, per prudenza mio padre ha creduto opportuno
rispettare, in parte, tale accorgimento, ma ciò indusse il Cherubino a
sospettare che i fatti narrati fossero avvenuti lungi di qui e che l'autore
volle mettere la scena in questa zona per poter parlare di Genzano, l'ipotesi
non risulta fondata.
Comunque appare evidente che l'anonimo frate, con
l'esposizione dei fatti che assicura storicamente esatti, volle sì parlare,
incidentalmente, di Genzano, ma intese stimmatizzare una atavica concreta
passione incestuosa e opporre ad essa, come atto liberatore, il sacrificio
della vita a favore di una nobilissima causa. Bari, 15 luglio 1971
Biagio Lorito
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Prologo
Il superbo palazzo del conte Sancia Xxxxxx, fin dalle
prime ore della sera, è insolitamente animato e sfarzosamente illuminato. Il
vasto parco, che si stende maestoso a ridosso del fabbricato, per qualche
chilometro, sino al mare, è illuminato come nelle più solenni occasioni.
La serata è eccezionalmente calda, benché si sia al
quattordici marzo il maggiordomo, sulla soglia del gran salone del pian
terreno, riceve gli invitati che affluiscono alla festa di ballo con maschera,
dal conte data per l'onomastico della contessa, donna Matilde.
Sono appena le diciannove e già l'orchestra fa
sentire, con i primi accordi, le patetiche note di un minuetto, segno
dell'inizio della festa.
Dopo qualche ora, le danze fervono tra il frusciare
delle vesti di seta rosea, celeste, gialla che splendono sotto la luce di
innumerevoli doppieri di bronzo e cesellati d'oro.
Uno di essi, più maestoso degli altri e raffigurante una ninfa
circondata da graziosi fauni, attira l'attenzione degli invitati per
l'eccezionale bellezza.
Tra la confusione delle vesti seriche, spicca la
nobile figura di donna Matilde vestita con un abito di color bianco e nero;
bianco il volto bellissimo sotto la breve maschera nera; bianco il turgido seno
voluttuoso, come petto di cigno tra ali di corvo; bianca la gamba seducente
inguainata nella seta candida della calza che traspare, dallo spacco della
veste, come una rosa che appena sbocci dal suo calice.
E in verità il fascino della contessa turbava, per
l'evidente straripante sensualità, i presenti che non riuscivano a staccare gli
occhi dalla regina della festa.
Quindi, accanto a lei, si affollano i più illustri
rappresentanti della nobiltà del Reame con abiti di tempi ormai tramontati, in
mezzo al gaio gruppo che assedia la bella castellana, emerge l'atletica figura
del duca di Xxxxxx, nipote di donna Matilde, mascherato da menestrello e con un
liuto ad armacollo.
La danza è al colmo e la festa si fa sempre più
vivace sotto lo stimolo dei generosi liquori che i compiacenti valletti
distribuiscono, a profusione, insieme a rinfreschi di ogni specie, in un momento
che l'orchestra tace, dal parco, giunge il suono di un liuto, accompagnato da
una voce baritonale.
Tutti rimangono in ascolto ed il menestrello intona, su di un noto
motivo del trecento, la sua canzone:
Eppur t'aspetto!!
L'amore vivo che ti porto in core
mi brucia il sangue delle vene;
in petto
arde la fiamma con crescente ardore:
vieni, t'aspetto.
I caldi baci che ti voglio dare,
verace segno d'un amor perfetto,
il Paradiso ti faran sognare:
vieni, t'aspetto.
Le stelle brillano per l'ampio cielo,
tu dormi placida nel bianco letto,
sugli occhi scendemi di pianto un velo:
vieni, t'aspetto.
La luna, ipocrita, nasconde il volto,
sorride, ironica, del mio dispetto;
in ombra lascia del giardin il folto:
vieni, t'aspetto.
Con l'alba vola l'ultima speranza,
L'aurora tinge già di rosso il tetto;
io riedo stanco nella vuota stanza:
vieni, t'aspetto.
Il dolce invito, forse, tu giammai
accoglierai, negli occhi tuoi l’ò
letto.
Il cor mi dice che tu non
verrai... eppur t'aspetto!
Tra gli invitati scoppiano fragorosi applausi; molte
coppie si riversano nel parco, ripetendo l'accorato ritornello e...
disperdendosi, poi, nell'ombra discreta delle piante, nel salone si riprende a
ballare con ritmo più accelerato.
Quando maggiore è la confusione, la contessa scompare
e, con lei, il canoro menestrello.
Donna Matilde, ancora con la veste bianca e nera,
sale nel suo appartamento ed entra nella stanza ove dormono, graziosamente
abbracciati nello stesso lettino, una bimba di due e un bimbo di quattro anni,
ella, trattenendo il respiro per non destarli, accarezza i riccioli del
figliastro e bacia la sua bimba con gli occhi pieni di lacrim, è l'ultimo bacio
che dà alla sua creatura, Indi si copre con un mantello nero, scende,
barcollando, nel parco e, per viali laterali, raggiunge la spiaggia ove il
nipote l'attende. Insieme, silenziosi e turbati, siedono in una minuscola barca
nascosta ai piedi della marmorea gradinata e prendono il volo verso la nuova
meta.
Dal parco giunge l'eco del ritornello: vieni,
t'aspetto!
Donna Matilde si abbandona al pianto lungamente represso, piangi? - le
sussurra l'innamorato nipote; si vede che non mi ami al punto di saper elevare
il tuo olocausto al disopra di tutti quelli che, fino ad oggi, furono immolati
sull'ara di Eros.
- Raul, sai che ti adoro al punto di aver abbandonato la mia creatura e
di essere stata ingiusta verso il mio sposo.
- Strano il fatto che tu voglia, ora, pensare ai doveri di madre e di
moglie. Da tempo abbiamo ridotto a brandelli questi santi legami! Non ho forse
io lasciato moglie, figlio e genitori per te?
- Perdonami, sai che tutti i palpiti puri del mio cuore sono per te; ma,
in questo momento, mi riesce duro l'abbandono della mia famiglia e la mente si
rivolge alla Madre del Signore, che immortalò e santificò il dolore, perché dia
ai miei la forza di sopportare lo strazio che il mio atto causerà e sia
misericordiosa con me... con noi.
Lasciami piangere, ne ho tanto bisogno - piangi pure,
ma ricordati, che quando nel cuore domina sovrano, inesorabile l'amore, nulla
si teme, niente si rimpiange.
****************
Al tocco la festa è finita e per le stanze silenziose
della « Villa Sancia » il conte, oltremodo turbato, si accanisce in una ricerca
affannosa per quanto vana.
Nessuna traccia della contessa! L'innamorato e
sfortunato marito, come un forsennato, chiama per le sale, per gli anditi; si
affaccia alla terrazza; scende nel parco e vaga tutta la notte inutilmente
finché avvilito, stanco si trova nella sua stanza, quivi un biglietto spicca
sul comodino; l'afferra e legge: « Perdonami, se puoi, ma non mi cercare.
Matilde ».
Il conte si abbatte su di una sedia e vi rimane come
privo di vita quando si ridesta dalla sua angoscia, si avvia verso la stanza
ove dormono i bimbi.
Infame, mormora, ha avuto il coraggio di abbandonare la sua creatura, e
scoppia in singhiozzi, il bimbo si desta e si avvinghia al collo del padre che,
per non spaventarlo, gli ride tra le lagrime quasi per dirgli: non è nulla il
piccolo, come cullato dalle carezze paterne, si riaddormenta.
La mattina dopo la famiglia Sancia Xxxxxx abbandona
la città di Trani e parte per un non lontano feudo di proprietà di una vecchia
congiunta del conte.
Il vetusto castello di Monteserico, in territorio di
Genzano di Basilicata, racchiude, solo per poco, il gran
dolore dello sfortunato marito, giacché, lo schianto patito, stronca la
vita del conte a trent'anni, due mesi dopo il triste evento.
Di donna Matilde non si seppe più nulla e venne
considerata, in famiglia, come morta, un pesante velo nero coprì il superbo
ritratto della contessa, opera dell'insigne pittore e poeta: Gian Lorenzo
Cardone (1), che riempiva di sorriso il salone giallo del castello, ritratto
dal quale il conte non aveva avuto la forza di staccarsi.
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